Esercizi di prospettiva: un giorno in una scuola superiore svedese

Bene. Dimenticate per un attimo tutto ciò che sapete sulla scuola. Purgate la mente di tutti quei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza che contribuiscono alla formazione del vostro concetto di scuola. Un insieme di immagini, più o meno grigie. Di tensioni. Di ansie. Di compiti non fatti mangiati dal cane o dal micio. Di permessi per andare in bagno. Ma anche di soddisfazioni, di bei voti, parole di apprezzamento ai colloqui coi genitori o da parte dei professori in presenza dei compagni di classe. Professori. Dimenticateli per un attimo e sostituiteli con degli insegnanti. Magari anche giovani, sorridenti e digitali. È così che li chiamano qui i professori: insegnanti. Nel curriculum che ho dovuto studiare prima di entrare nel Gymnasiet (la nostra “scuola superiore”) della cittadina svedese di Falun “insegnamento” e “partecipazione” erano sostantivi ricorrenti. Così come “uguaglianza di genere” (non parità dei sessi, uguaglianza di genere, e la differenza tra sesso e genere non ancora entrata nel senso comune italiano non è un caso e non è da poco). “Partecipazione studentesca” e “prospettiva internazionale” erano soli alcuni degli altri termini-chiave del curriculum.

Un parco verdissimo mi conduce all’ingresso dell’edificio scolastico. È un museo. Animali imbalsamati vicino all’ingresso. È una struttura iper-moderna, un luogo di socialità (nonostante l’apparente approccio non proprio socievole della maggior parte degli svedesi). Armadietti e momenti di convivialità tra studenti e professori in appositi spazi ricreativi. L’architettura poi è quella tipica di questo Paese, con i mattoni rossi della regione Dalarna, i parquet e massiccio uso di legname finemente lavorato. Non smetto di sorprendermi quando, in un perfetto inglese, sono accolto dall’insegnante Adolphson e condotto nella staff-rum dei professori dotata di confortevoli poltrone ed anche di una cucina con forni a microonde per scaldare cibi portati da casa.

Usciamo e incrociamo la mensa dove alle ore 11:30 pranzerò in compagnia di alcuni studenti. Un servizio per me accettabile, e più che buono da una prospettiva svedese avvezza a considerare il cibo più un bisogno fisiologico che un rituale di socialità. Sono gratuiti anche i (pochi) libri ed i computer portatili assegnati a ciascuno studente, fondamentali per svolgere i “compiti”. Ciascuno poi, come incoraggiamento, riceve 2500 corone (250 euro circa) al mese, a patto che sia presente al 70% delle lezioni annuali. I registri sono ovviamente delle tabelle sul computer dell’insegnante (stesso modello e colore dei computer dati agli studenti e un adesivo con scritto “Falun-Kommun”). Gli studenti universitari invece ricevono una cifra settimanale di 2400 corone (in euro al mese sono circa 1000 euro). Una rivendicazione del CSR, quella del reddito per gli studenti, così elementare che già la socialdemocrazia scandinava può garantirla e che persino gran parte della nostrana “sinistra antagonista” si guarda bene dal rivendicare. Una rivendicazione minima in Italia considerata estremista e velleitaria.

(Una rivendicazione importante, pur con tutte le contraddizioni che la sua applicazione in un contesto ancora capitalistico implica).

La lezione di Adolphson è nell’aula 219 del corridoio NA16 (dove Na sta per “natura”). L’insegnante mi conferma che molto spesso gli studenti cambiano aula al termine di ogni lezione. “Bene”, penso. Hanno innanzitutto più libertà di movimento. Si comincia. Non si tratta di una tradizionale performance frontale, ma di una figura più avanti con gli studi che fornisce linee guida chiare e di studenti che le applicano, divisi in gruppi, servendosi dei loro portatili iperconnessi, spostandosi anche in altri ambienti della scuola se lo desiderano e senza chiedere il permesso per andare in bagno. Adolphson è un professore di storia e arte. Il compito dei suoi studenti questa volta è preparare un’esposizione critica relativa alle ultime elezioni svedesi (ipotizzare una maggioranza alternativa a quella formatasi), alle imminenti elezioni americane e al dibattito aperto sulla monarchia svedese. Si mettono tutti a lavoro e, devo dire, appaiono motivati. Forse perché l’atmosfera è particolarmente dialogante e conviviale. Non hanno il “lei”. Possono andare liberamente in bagno. Non sono lì incollati a una sedia da sei ore. O forse anche perché, come mi dirà Adolphson, a partire dal secondo anno (nostro quarto anno) possono scegliere quali corsi seguire (come fossero all’Università). Allora chi è lì non può non essere interessato a quello di cui si sta parlando.

L’insegnante sa che la mia imminente laurea italiana in filosofia mi proietterebbe verso l’insegnamento. Mi rivela allora che la filosofia non gioca un ruolo di primo piano nella scuola svedese, è solo una delle materie a scelta nel secondo e terzo anno. Ma tra le materie obbligatorie del primo anno ci sono scienze sociali e religione. Specifica subito che si tratta di dibattiti su controverse questioni etiche (non esattamente la nostra imbalsamata IRC). Un conversare che non poggia magari su particolari basi teoriche o su citazioni pronte di autori classici, è vero. Ma che comunque pone al centro l’opinione degli studenti e la loro personale esperienza.

Molto si potrebbe poi scrivere sul perché in Svezia il posto che nei licei italiani è occupato dalla filosofia sia occupato dalla “religione” e dalle scienze sociali. Forse per via del loro amore per le statistiche o perché i loro nomi della storia del pensiero non hanno probabilmente avuto risonanza europea, o

ancora perché le scienze sociali appartengono al patrimonio svedese più di quanto la filosofia appartenga al patrimonio del resto d’Europa (sin dagli anni trenta commissioni governative composte da scienziati sociali sono state determinanti nello sviluppo delle politiche per la famiglia e per le donne). Ma non è questa la sede adatta per approfondire l’argomento. Quello che possiamo però affermare è ciò che ogni lettore si aspetterebbe: e cioè che la scuola svedese è molto più scuola e molto meno caserma e ospedale delle nostre scuole superiori, ancorate ad un marcio presente a causa della carenza di risorse che renderebbe impossibile l’attuazione di una simile idea di scuola anche qualora ci fosse la volontà. Un simile sistema educativo, infatti richiederebbe ambienti fisici e risorse di una certa entità (quantitative e qualitative) al fine di sviluppare un rispettivo ambiente pedagogico e manipolarlo nella giusta maniera, nella direzione della partecipazione studentesca, dell’uguaglianza di genere, di un ripensamento dell’equilibrio dei poteri degli studenti e degli insegnanti, tutti fattori che, a dispetto di alcuni pregi come la supposta solidità della conoscenza teoretica, nella scuola italiana mancano.
Dal compagno in Svezia Matteo Iammarrone.

Il nostro volantino sulla mobilitazione del 7 Ottobre

È a partire dalla situazione concreta che si può sviluppare la mobilitazione delle componenti del mondo della scuola oggi. Ma difendersi vertenza per vertenza è fallimentare. È necessario, dunque, generalizzare la battaglia, farla passare dal piano strettamente specifico e renderla generale e generalizzata. Lo si può fare soltanto unendo tale lotta a quelle di tutti gli altri lavoratori sul terreno immediato dell’indicazione del NO al #referendumcostituzionale. Per fermare l’offensiva del governo a lavoratori e studenti.

In questo senso, saremo presenti al corteo studentesco del 7 ottobre, con concentramento in piazza S. Francesco a Bologna alle 9: invitiamo tutti e tutte ad unirsi allo spezzone degli Studenti Rivoluzionari – CSR!

ASSUNZIONE A TEMPO INDETERMINATO
DI TUTTI I PRECARI!

TRASPORTI PUBBLICI GRATUITI PER GLI STUDENTI!
PREZZI SIMBOLICI PER I LAVORATORI!

PER UN REALE PIANO DI EDILIZIA SCOLASTICA:
PRENDERE I SOLDI DAI FONDI
ORA DESTINATI AI PRIVATI!

NO AGLI STAGE NON RETRIBUITI!

NO ALLE DEPORTAZIONI DEI DOCENTI!

VOTARE NO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE!

UNITÀ DI STUDENTI, PROFESSORI E LAVORATORI CONTRO RENZI E IL SUO GOVERNO!

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Evento FB: https://www.facebook.com/events/1780765122144375/

2 agosto: gli stragisti hanno vinto

Pubblichiamo una nota del PCL Bologna, pubblicata esattamente un anno fa, che condividiamo assolutamente e che centra il punto di vista di classe riguardo la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna: la complicità tra stragisti fascisti e Stato borghese è data dalla loro comune difesa dei capitalisti contro il movimento operaio. Solo l’abbattimento del sistema di sfruttamento e della barbarie del capitalismo porterà alla scomparsa definitiva di ulteriori stragi fasciste.

Sono passati 35 anni dalla strage del 2 agosto e, mentre dal punto di vista giudiziario sono stati condannati i fascisti dei Nar come esecutori materiali e il capo della P2 Gelli come depistatore, nulla ufficialmente si sa sui mandanti e sulle vere ragioni politiche della strage.
La cosiddetta desecretazione di vari documenti voluta da Renzi è stata uno scherzo, rendendo noti documenti che erano già a conoscenza dei magistrati e degli storici.
Gli stessi superstiti e i familiari delle vittime vengono sbeffeggiati dal governo e dal suo capo Renzi che si rifiuta di approvare gli indennizzi, malgrado il presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage, Paolo Bolognesi, sia oggi deputato alla Camera e fedele sostenitore del governo renziano.
Ci domandiamo come faccia Bolognesi, che per tanti anni ha denunciato le “mancanze” dei vari governi e il ruolo golpista della P2 e dell’estrema destra, a stare nella stessa maggioranza del pregiudicato Berlusconi (col governo Letta) già tessera P2 n.1816, oppure col piduista, oggi NCD, Cicchitto – tessera P2 n. 2232. Senza parlare che entrambi i governi a guida Pd – ieri Letta e Renzi oggi – sostenuti da Bolognesi hanno visto o vedono l’appoggio di vari ex fascisti: ad es. Gasparri (ex Msi) fino al 2014 o Vincenzo Piso ex fascista di Terza Posizione e oggi deputato dell’NCD.
Se è lontana la verità giudiziaria sulle stragi e sulla c.d. strategia della tensione, quella storica e politica è invece chiarissima: decine e decine di morti ammazzati dal terrorismo fascista ben coperto e ben aiutato da apparati dello Stato e dal leale alleato Usa. Fascisti, servizi segreti Usa ed italiani, vari apparati repressivi legali o illegali, hanno massacrato cittadini e lavoratori per i loro sporchi fini, prima per sconfiggere l’avanzata del movimento operaio, poi per azioni sullo scacchiere internazionale.
Se i mandanti politici delle stragi hanno vinto nei decenni passati tutte le loro battaglie; se in piena continuità con la peggiore politica democristiana Renzi e soci attaccano i diritti dei lavoratori conquistati con lotte e sacrifici e smontano gli elementi formalmente democratici della costituzione repubblicana; opporsi a questa grande offensiva reazionaria e contro riformatrice è possibile e necessario.

Colau e De Magistris per Làbas: scegliersi gli alleati giusti!

In occasione del recente incontro pubblico “Rebel cities” a Marghera, i sindaci di Napoli e di Barcellona, Luigi De Magistris e Ada Colau, hanno speso parole in difesa dell’occupazione “bene comune” dell’ex-caserma Masini, nota come Làbas. Uno spazio destinato dal Piano Unitario di Valorizzazione del comune di Bologna e dalla Cassa Depositi e Prestiti (che possiede l’immobile) a un complesso comprendente un albergo, una trentina di alloggi, attività commerciali e ristorative, il tutto “in armonia” col resto del quartiere Santo Stefano, uno delle aree “bene” della città. Attualmente, nei suoi documenti la CDP definisce Làbas “in fase di liberazione”ed in effetti è da dicembre che pende un decreto di sequestro della procura bolognese. Nonostante alcune aperture formali da parte della giunta comunale di Bologna e dalla stessa CDP, nel concreto la situazione è rimasta la stessa e il recente sgombero dell’occupazione abitativa di Porta Galliera costituisce la conferma palese della volontà da parte del comune di Bologna di far rispettare ordine, legalità…e il sacro diritto alla proprietà privata dei palazzinari e dei grandi gruppi capitalistici, privati e pubblici. A danno dei proletari, spesso senza lavoro e senza salario, che trovano sempre più difficile pagare affitti esagerati, anche nel caso degli alloggi popolari.

Rivendicare quindi l’esistenza e la difesa di realtà recuperate al degrado e all’abbandono, autogestite da chi abita i quartieri, è legittimo e anzi doveroso. Si pone però la questione politica per cui bisogna chiarire su quali basi si possono mobilitare inquilini, lavoratori, studenti, abitanti dei quartieri popolari, e non solo, per portare avanti il movimento di lotta per la casa in generale, e la difesa di spazi recuperati autonomamente dall’abbandono.

Se lo Stato e le sue aziende conducono le stesse politiche dei palazzinari, dovendo rispondere politicamente a loro e ai capitalisti in genere, e non ai lavoratori e alla povera gente, allora va affermata con forza la piena autonomia politica della lotta per la casa, delle occupazioni, dallo Stato e dalle forze politiche che a qualsiasi livello governano. In questo senso, sarebbe prioritario cercare legami non solo di solidarietà, ma di fronte comune e unità nella lotta con le realtà popolari e del movimento operaio: sindacati, assemblee nei posti di lavoro, studenti e loro realtà organizzate, ogni realtà di movimento e di lotta dei proletari.

Pare invece inopportuno il grande entusiasmo per la solidarietà dei due sindaci che abbiamo ricordato, la Colau e De Magistris. In primis perché, come abbiamo detto, aldilà delle divergenze politiche che possono avere con la linea di Merola e del PD (o del PSOE in Spagna), si sono presi l’incarico di gestire una porzione dell’apparato statale senza voler rompere apertamente con le leggi “d’austerità” e le controriforme imposte negli ultimi decenni dai vari governi (di centrodestra o centrosinistra che fossero), e quindi condannandosi a gestire, magari con qualche sfumatura “a sinistra”, le politiche di tagli imposte dalle classi dominanti in Spagna come in Italia.

Nel nostro caso, da una parte abbiamo il sindaco De Magistris che, nel caso della storica occupazione abitativa ell’ex convento Franciosa a Napoli, non ha giocato alcun ruolo nella lotta degli inquilini, che hanno dovuto fronteggiare da sé tentativi di sfratto portati avanti da ingenti schieramenti di forze dell’ordine mandate dai proprietari del convento, cioè la Curia di Napoli, la quale ha mandato al diavolo, è il caso di dirlo, lo spirito di carità, rivendicando la sacralità della propria proprietà privata di un immobile lasciato vuoto per anni e occupato da povera gente che non avrebbe altro posto dove andare. Sono state l’auto-organizzazione degli inquilini, la loro perseveranza nel resistere ai tentativi di sfratto e allo stacco di acqua e luce, la loro rivendicazione intransigente di una piena regolarizzazione dell’occupazione, a far piegare Curia e Comune. Il tutto senza alcuna fiducia nella bontà del clero o del sindaco, ma con l’appoggio del sindacato Asia-Usb, dei compagni del Coordinamento Studenti Napoli Est, del CSR Napoli e della sezione napoletana del Partito Comunista dei Lavoratori, e non certo delle immaginarie guardie dello “zapatismo napoletano” proclamato da De Magistris.

Nel caso di Barcellona, proprio lo scorso maggio il sindaco Colau ha dato il via libero politico allo sgombero violento (con parecchi feriti) del Banc Expropriat: un immobile di proprietà bancaria lasciato vuoto e occupato nel 2011 da attivisti della sinistra catalana. Un’occupazione nel cuore dello storico quartiere Gràcia sgomberata a un anno dall’insediamento di Ada Colau che, ironia della sorte, deve la sua carriera politica al suo ruolo di portavoce del movimento di lotta per la casa Plataforma de Afectados por la Hipoteca (nata sull’onda degli sfratti massa in Spagna seguiti alla crisi del 2007-8): le dichiarazioni di una politica “antisistema” appoggiata al trasformismo opportunista di Podemos, i discorsi a favore di una rete di “città ribelli” si sono risolti nell’appoggio politico di uno sgombero violento in forze di un’occupazione storica a favore della quale Colau si era più volte espressa salvo, evidentemente, tornare alla realtà della società capitalista una volta che si è trovata in un ruolo di governo. Confermando con la sua politica che nel concreto non si può al contempo fare gli interessi degli sfruttati e delle realtà popolari di quartiere, e gestire lo Stato borghese, fatto a immagine e somiglianza di banchieri, industriali e palazzinari. E Ada Colau ha scelto da che parte stare: dalla parte dei banchieri che volevano il loro immobile indietro. E lo ha fatto confermando come il precedente sindaco di centrodestra Xavier Trias abbia creato un “buco” di 65.000 euro nel bilancio comunale versando segretamente l’affitto dello stabile ai proprietari, costretto dal fatto che gli inquilini si erano rifiutati di pagarlo o di lasciare l’immobile: paradossalmente, mentre la Colau ha confermato che la galassia di Podemos sa prendersi le sue responsabilità di fronte alla borghesia e alle sue leggi, Trias dovrà ora fronteggiare un’inchiesta per aver usato fondi pubblici a favore di un’occupazione. Cosa che non fa certo di lui “un compagno”…

La lotta per la casa e la difesa delle occupazioni non devono essere l’ennesima occasione di sconfitta generale costruita su illusioni e strategie interclassiste: è sul terreno dell’unità di classe, della ricomposizione delle lotte e delle istanze degli sfruttati, dei lavoratori, degli studenti, della povera gente che abita nei quartieri popolari, che si può mettere in campo un’opposizione politica ai palazzinari privati e pubblici, una mobilitazione di massa che garantisca reali conquiste di salario e di migliori condizioni di vita. Che metta finalmente in questione non i cattivi politici o la casta, ma il capitalismo in toto, la sua dittatura del profitto, la barbarie che genera in ogni città, in ogni paese del mondo.

Giacomo Turci

Lotta per la casa a Bologna: l’Associazione Pugno Chiuso

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un breve documento di presentazione dell’Associazione Pugno Chiuso, impegnata nella lotta per la casa a Bologna e con la quale collaboriamo sin dalla sua fondazione. L’unione e la ricomposizione delle lotte della classe lavoratrice passa anche per i quartieri e per le case popolari, per l’auto-organizzazione degli inquilini che soffrono del caro-affitti e delle angherie dei grandi proprietari immobiliari pubblici e privati.

Ci presentiamo, prima di tutto. Siamo un piccolo sindacato di inquilini, nato pochi mesi fa dall’iniziativa di un comitato inquilini, il Comitato Inquilini Via Gandusio, costituitosi per difendere alcune famiglie di inquilini nelle case popolari. Difendiamo gli inquilini delle case popolari del quartiere bolognese San Donato e di altri quartieri di Bologna, non solo dagli sfratti, ma anche dagli aumenti delle tariffe e dagli abusi delle istituzioni in materia d’abitare (in particolare nell’edilizia popolare). Come scriviamo nel nostro statuto, “l’esistenza dell’associazione è resa necessaria dall’attuale negligenza dei sindacati e delle istituzioni competenti rispetto ai diritti ed ai bisogni degli inquilini”. Forse qualcuno si stupirà che vengano eseguiti sfratti dalle case popolari, in un quartiere della periferia povera d’una città come Bologna, dove la reputazione di attenzione degli amministratori verso le fasce sociali più basse è, forse, un poco esagerata, soprattutto in considerazione della mutazione della “sinistra” nel “moderno” PD. Proprio Bologna infatti è stata in questi anni il luogo privilegiato in cui sperimentare una certa gestione dell’emergenza abitativa nell’edilizia popolare, già definita dai suoi paladini come “turnover” delle assegnazioni emergenziali, attraverso l’utilizzo di svariate tipologie di contratti a termine, denominati a seconda della durata contratti “d’emergenza”, “a parcheggio”, etc. In sostanza l’amministrazione comunale istituisce una graduatoria d’ ”emergenza” attraverso cui assegnare temporaneamente alloggi popolari a singoli e famiglie delle fasce più deboli, per un massimo di tre anni. Tale graduatoria riguarda ormai, vista l’ampiezza dell’emergenza abitativa, svariate migliaia di persone, ed i contratti provvisori sono divenuti, di conseguenza, non più l’eccezione ma la norma dell’assegnazione della casa popolare a Bologna. Le graduatorie non emergenziali, come è noto, sono bloccate da anni. A sentire le parole dell’assessore alla politiche abitative e alla sicurezza Riccardo Malagoli, dopo tre anni una famiglia lavoratrice il cui ISEE non è sufficiente all’iscrizione alla graduatoria ufficiale non sarebbe più in condizione di “emergenza abitativa”, come se il bisogno dell’alloggio cessasse improvvisamente oppure l’inquilino in tale lasso di tempo avesse la possibilità di sistemarsi nel privato. Il vero colpo da maestro, architettato dai Comuni e dagli enti preposti arriva però una volta scaduto il contratto: allo scadere della durata stabilita, il contratto provvisorio è commutato come per magia in “contratto” da “occupante abusivo”. L’inquilino, trovandosi nell’alloggio oltre tale durata, è ritenuto occupante dello stabile assegnatogli, magari l’anno prima. Se l’inquilino o perché nonha in mano il proprio contratto o per semplice necessità (situazioni tutt’altro che insolite nella cosiddetta emergenza) non libera l’alloggio, si vede chiedere cifre crescenti di “canone” ed utenze come indennità, spesso raddoppiate o triplicate dall’oggi al domani. Così, senza che l’inquilino abbia un reale contratto in mano, egli viene considerato, in quanto occupante, passibile di sfratto, ma solo dopo avergli “richiesto” somme ingenti. Tutto ciò è testimoniato da decine di persone che si rivolgono al nostro sportello sindacale, e dagli sfratti che ogni mese impediamo. Questa vera e propria estorsione organizzata sulla pelle di famiglie già in difficoltà può apparire incredibile, ma la volontà di fare cassa delle istituzioni costantemente minacciate da nuovi tagli non conosce ormai più vergogna, e solo l’organizzazione e la lotta degli inquilini possono mettere i bastoni tra le ruote ad istituzioni spesso andate fuori controllo. Tuttora è poco nota la denuncia dell’ex assessore alla casa di Bologna Antonio Amorosi, secondo cui fino a pochi anni fa le assegnazioni d’emergenza erano “politiche”, sistematicamente spartite tra i vari partiti, in un sistema clientelare che ovviamente scavalcava la graduatoria “ufficiale”. Più noto il caso di Mafia Capitale, esempio calzante della corruzione avanzata e del malaffare stabilitosi ormai all’interno delle istituzioni stesse. Mafia Capitale è anche un buon esempio della compenetrazione di “pubblico” ed affari ed affarucci privatissimi, come quelli che anche a Roma giravano attorno all’”accoglienza” dei migranti. Quest’ultima è pezzo forte anche dell’amministrazione bolognese: decine di alloggi popolari sono concessi dall’Azienda Casa Emilia Romagna (ACER, ex-IACP) ad associazioni cosiddette “benefiche” e “no profit”, le quali dietro lautissimo compenso pubblico gestiscono l’integrazione d’immigrati trattati non meglio di bestie, nella più totale oscurità e silenzio stampa: abbiamo raccolto testimonianze di alcuni, che hanno vinto la paura di essere sfrattati e di perdere tutto, i quali raccontano di ricatti quotidiani, abusi d’ogni tipo, inesistenza di servizi fino ad arrivare al lavoro gratuito, cosiddetto “volontario”, per associazioni “no profit” arricchite da valanghe di denaro pubblico di cui l’immigrato “assistito” non vede un euro. Il sistema così organizzato è peraltro riprodotto esattamente dai servizi sociali, tramite i quali sono stipulati molti contratti d’emergenza; l’inquilino è sottoposto a controllo costante da parte di individui che nulla offrono agli assistiti se non un alloggio precario e la minaccia costante di vedersi togliere i figli se non si seguono le direttive dei “programmi d’assistenza” elaborati da costoro. Questa è la realtà quotidiana di centinaia di famiglie lavoratrici nella periferia di Bologna, e frammenti delle condizioni di vita d’inquilini con cui entriamo in contatto ogni mese e con cui lottiamo. Di fatto, in questi anni di smantellamento del welfare la casa non ha fatto eccezione, finendo per venire “subappaltata” ad un welfare privatistico (di cui le associazioni sono un tassello) divenuto ben presto giro d’affari, come il caso romano mostra chiaramente. L’edilizia pubblica tramutata in territorio di business e sfruttamento dei più deboli è uno scandalo particolarmente odioso che ad oggi solamente piccole realtà come la nostra hanno denunciato. Ad oggi siamo inoltre uno dei pochissimi sindacati inquilini a denunciare l’occultamento e l’utilizzo “alternativo” dei fondi ex-GESCAL, che giacciono nella Cassa Depositi e Prestiti (oggi co-proprietà d’alcune grandi banche), prelevati in decenni dalle buste paga con la destinazione speciale di finanziare l’edilizia pubblica. Alla politica che canta la litania del “non ci sono fondi”, “sono finiti i soldi” ricordiamo l’esistenza di fondi simili, denaro della classe operaia recentemente utilizzato per tappare i fallimenti delle banche, finanziare le grandi opere e le grandi aziende private – come l’ILVA. Il fatto che avere un tetto sotto cui dormire e crescere i figli sia, oltre ad un bisogno essenziale, un diritto per tutti i lavoratori, non deve restare un edificante slogan dei movimenti antagonisti, anche considerato che i lavoratori d’ogni nazionalità hanno sempre versato i contributi destinati all’edilizia popolare, come la famigerata GESCAL. Due anni dopo che la Fondazione Leone Moressa ha classificato la periferia di Bologna come la zona più a rischio banlieue in Italia, e mano a mano che l’emergenza abitativa esplode e diviene oggetto di dibattito politico, rivendichiamo una gestione totalmente diversa dell’edilizia pubblica. Pretendiamo che sia finalmente al servizio delle famiglie proletarie e non un business per approfittatori pubblici e privati, grandi e piccoli. Per affrontare l’emergenza creata dalle istituzioni, pretendiamo l’abolizione dei contratti provvisori d’alloggio, l’assegnazione definitiva di tutto lo sfitto pubblico che ancora ammonta a migliaia di alloggi in Bologna e provincia, la moratoria ed il blocco immediato degli sfratti in programma, lo sblocco dei fondi ex-GESCAL ed il loro utilizzo per un’edilizia veramente popolare, non per finanziare i privati. Questo è il minimo da pretendere e da concretizzare per la soddisfazione di un bisogno primario come quello dell’alloggio, soddisfazione negata in tempo di crisi a sempre più famiglie lavoratrici di ogni nazionalità e provenienza.

Continua la repressione padronale: non si fermeranno le lotte!

Artoni

A seguito della lotta degli operai Stemi-Artoni e Astercoop per il miglioramento delle proprie condizioni di lavoro e poi per il reintegro dopo un licenziamento politico di massa, continua la campagna di repressione della lotta operaia a Cesena, a grande richiesta di Artoni e Coop Adriatica.
A nemmeno un mese di distanza dal proscioglimento di lavoratori, sindacalisti e militanti solidali alla lotta dei lavoratori Stemi-Artoni per il reintegro sul posto di lavoro, a seguito dell’accusa di violenza privata e altri reati, sono state recapitate altre due notifiche di citazione a giudizio per i picchetti dell’ottobre-novembre 2015. Ancora una volta, vengono colpiti dalla repressione giudiziaria i lavoratori, i loro rappresentanti sindacali e i militanti che hanno sostenuto in prima persona la loro lotta, i loro picchetti. Tra questi, alcuni militanti del collettivo Studenti Rivoluzionari di Bologna.
Si tratta di un gravissimo atto di repressione e l’intento è chiaro: tagliare le gambe ai lavoratori, privarli del sostegno e della solidarietà di studenti e altri lavoratori, privarli della rappresentanza sindacale.
Non è la prima e non sarà l’ultima denuncia che ci colpirà: chi lotta per la rivoluzione sa di dover subire la repressione di chi comanda e di chi sfrutta, perché mina le basi di questa società governata da un pugno di industriali e banchieri.
Come Studenti Rivoluzionari, non ci faremo certo intimidire dalla repressione dei capitalisti e continueremo a stare al fianco dei lavoratori in lotta. Per la liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato e della dittatura del profitto e del capitale.

Riportiamo questo articolo, scritto dal nostro compagno Giacomo.

Elezioni in Spagna: ubriacature governiste e inciampi “marxisti”

Lottare contro l’interclassismo e la sottomissione alla borghesia, caratteristiche di Podemos, è compito fondamentale dei marxisti, così come la costruzione di un partito autenticamente classista e rivoluzionario.
Il governo dei lavoratori non può passare attraverso la vittoria nelle elezioni politiche borghesi.
Il governo dei lavoratori sarà la dittatura della stragrande maggioranza su pochi sfruttatori, instaurata dopo l’abbattimento dello Stato in mano ai capitalisti, o non sarà.

Podemos

«Soltanto dei mascalzoni o dei semplicioni possono credere che il proletariato debba prima conquistare la maggioranza alle elezioni effettuate sotto il giogo della borghesia, sotto il giogo della schiavitù salariata, e poi conquistare il potere. È il colmo della stupidità o dell’ipocrisia; ciò vuol dire sostituire alla lotta di classe e alla rivoluzione le elezioni fatte sotto il vecchio regime, sotto il vecchio potere.»

Lenin, Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi, 10 ottobre 1919

Si sono tenute due giorni fa in Spagna le elezioni per le Cortes Generales. Rispetto alle elezioni dello scorso 20 dicembre (alle quali è seguito uno stallo politico, mancando una maggioranza parlamentare solida), il Partito Popolare di Rajoy esce rafforzato, mentre la giovane forza “civica” di destra Ciudadanos e il PSOE perdono seggi. La capacità del PP di confermare e ampliare il proprio bacino elettorale mentre continua a promuovere le politiche di lacrime e sangue come da copione della grande borghesia e delle linee-guida UE, fa risaltare ancora di più la “sorpresa” di queste elezioni: il mancato sorpasso di Podemos (presentatasi come “Unidos Podemos”) rispetto al PSOE (partito “socialista”), anch’esso ampiamente screditato e coinvolto nelle politiche padronali di austerità. Nonostante la fusione con la vecchia sinistra riformista di Izquierda Unida, Podemos è passata dal 20,7% al 21,1% di voti nell’arco di sei mesi. Continua dunque il clima di incertezza che aveva caratterizzato questi ultimi sei mesi.
Un clima che non potrà durare molto a lungo, visto che la funzione centrale del governo statale e del parlamento non è certo quella di dibattere all’infinito tra opposte fazioni della classe dominante, ma quella di garantire un generale assetto politico e giuridico favorevole al capitalismo, cioè a garantire il diritto al profitto e allo sfruttamento da parte di padroni piccoli e grandi, banchieri e industriali.

In questo quadro, si pone la necessità politica di un governo “di larghe intese” fra PSOE, PP e Ciudadanos, oppure fra PSOE, Podemos e partiti minori regionali. Si tratterebbe rispettivamente di un governo “di destra” e “di sinistra” borghesi. A fronte della confusione nell’analisi politica generale e nel giudizio su Podemos, è bene rimarcare che questo partito, pur avendo catalizzato importanti forze provenienti dalle ultime grandi mobilitazioni del movimento operaio spagnolo, è una forza nata all’insegna dell’interclassismo, della fedeltà allo status quo politico (con tanto di omaggi al Re e alle forze armate di tradizione franchista), dell’esplicito rigetto del comunismo e della tradizione della democrazia operaia basata sul centralismo democratico. Un partito “liquido”, che vanta formalmente numeri di massa, ma che ha condotto una campagna elettorale insignificante. Questo è quanto sono costretti ad ammettere anche coloro che più fortemente hanno appoggiato Unidos Podemos, come la IMT (International Marxist Tendency), di cui è sezione italiana Sinistra Classe Rivoluzione (1).

In tal senso, proprio la IMT, come spesso succede quando si approccia a forze politiche riformiste “di sinistra”, si è caratterizzata per un’esaltazione del ruolo politico di Podemos e del suo capo Pablo Iglesias, prendendo come al solito una cantonata anche sul piano del mero appoggio opportunistico a una forza politica di massa e in ascesa – l’ascesa pare già finita, ben prima di arrivare alla grande vittoria elettorale e al governo dello Stato spagnolo.

Solo due settimane fa Alessandro Giardiello, dirigente di Sinistra Classe Rivoluzione, ci indicava che “la Spagna svolta a sinistra” (2). C’era forse stata un’improvvisa ondata di lotte operaie e studentesche, come sta accadendo in Francia? Si era fatto un passo avanti nelle esperienze di organizzazione dei lavoratori, nella costruzione di comitati operai di base, o nella costruzione di un fronte unico di lotta del movimento operaio? Nulla di tutto questo: si era semplicemente compattata, in vista delle elezioni, tutta una pletora di partiti e realtà associative “di sinistra”, raccolti intorno a Podemos e a Iglesias, con lo scopo di tentare l’assalto alla diligenza del parlamento spagnolo, sperando in un risultato brillante – il sorpasso dei socialisti – con il quale potersi finalmente sedere in qualche modo da pari a pari al tavolo coi padroni e con i partiti borghesi tradizionali. Se questa è dunque da intendersi come la “svolta a sinistra” (più di Podemos che della Spagna, in realtà), bisognerebbe per lo meno riconoscere che essa si è prodotta a partire da una precedente svolta a destra (di Podemos). Quella, cioè, che ad aprile aveva portato nientemeno che alla proposta al PSOE della formazione di un governo comune. Proposta appoggiata entusiasticamente dalla IMT, e che forse non molta fortuna ha portato a Podemos, stando ai risultati elettorali.

Per ottenere il nuovo cartello elettorale (Unidos Podemos), lo riconosce anche Giardiello seppure con toni molto concilianti, Iglesias e la sua corte hanno dovuto abdicare a un po’ del loro potere assoluto su Podemos per permettere una certa spinta “dal basso”, dalle assemblee di base e dalle tante realtà locali pronte a sostenere Iglesias come candidato premier. Pur rimanendo, ovviamente, lontani dalla tradizione centralista democratica.

Quella che non è stata sicuramente la svolta a sinistra della Spagna, oltre a indicare forse che la parabola di Podemos ha già incominciato la sua parte discendente, a causa della progressiva e sempre più accentuata moderazione dei toni e dei contenuti della sua politica, dovrebbe confermare ancora una volta che non è il caso, specie da parte dei “marxisti”, di alimentare alcuna illusione governista, alcuna scorciatoia per la presa del potere da parte della classe lavoratrice.
In questo senso, se la IMT rivendica astrattamente l’obiettivo del potere dei lavoratori, essa ricade ciclicamente nell’abitudine viziosa di sostenere acriticamente non tanto i processi delle polarizzazioni a sinistra frutto della crisi del sistema capitalistico e di lunghi cicli di lotta, quanto gli stessi attori e partiti che capitalizzano tale polarizzazione per ricondurla a una politica interclassista e compatibile con la dittatura dei capitalisti sull’intera società.
È il caso dell’esaltazione di Pablo Iglesias e di Podemos che, anziché lavorare per un consolidamento e un allargamento dell’organizzazione e della coscienza politica dei lavoratori in quanto tali, e della loro mobilitazione conflittuale contro lo Stato borghese e contro i capitalisti, hanno cercato semplicemente di ritagliarsi uno spazio “a sinistra” nella politica borghese spagnola, sfruttando la compromissione del PSOE. Non è un caso che i partiti riformisti tradizionali spagnoli, PCE in testa, abbiano finito coll’essere irresistibilmente attratti da Podemos, forza che, in linea con i riformisti di ieri, non solo non propone politiche realmente anticapitaliste, ma lavora coscientemente e dichiaratamente per ricomporre la frattura della crisi sociale e della crisi di regime spagnolo (“la seconda transizione”, dopo quella post-franchista) su un terreno sociale e politico sottratto a qualsiasi influenza della classe lavoratrice che possa mettere in questione i rapporti di potere, statali e sovranazionali (accettazione della UE capitalista e delle sue istituzioni), che caratterizzano la società capitalista. Così come non è un caso che, in un momento di grande “radicalità”, Iglesias abbia prospettato Podemos come forza “socialdemocratica”: rispetto alla sua solita litania contro la (vecchia) sinistra e soprattutto contro il comunismo e i comunisti (con le solite accuse di dogmatismo e settarismo verso chi anche solo sembri rivoluzionario, da bravo erede… di Berlinguer, più che da “gramsciano”, come egli si definisce), questo è il massimo della rottura e della opposizione che Iglesias e i suoi concepiscono: assumere il ruolo di stampella ortopedica della società capitalista e di demiurgo salvifico del conflitto di classe, oltretutto fuori tempo massimo, in un periodo di crisi dove le briciole riformiste da concedere agli sfruttati sono ormai esaurite.

In conclusione, Giardiello afferma che “prendere il governo oggi è solo il primo passo per prendere il potere domani”: quale rovesciamento dell’intera tradizione del marxismo rivoluzionario e del trotskismo, a cui pure Giardello formalmente ancora si richiama!
Alimentare l’illusione che un governo “di sinistra” eletto tramite elezioni (tra l’altro, questa volta con un’affluenza inferiore al 70%) possa nazionalizzare, sotto il controllo dei lavoratori (!), banche e grandi imprese, significa semplicemente negare la realtà dello Stato borghese come organizzazione politica e militare posta sempre e comunque, in ultima istanza, a difesa dei capitalisti. “Una società basata su consigli democraticamente eletti dal basso” non potrà mai costituirsi a partire dalla fedeltà allo Stato borghese e dall’interclassismo: illudere i lavoratori in questo senso è una grave colpa politica, così come lo è l’abbandono della necessità di un partito di classe rivoluzionario, autonomo dal riformismo e dalle sue tante reincarnazioni e varianti che stiamo conoscendo in questi anni. La lotta per una società libera dal capitale non potrà mai fare a meno della direzione dei marxisti rivoluzionari, ciò che richiede la loro piena indipendenza politica ed organizzativa.

Il governo dei lavoratori sarà la dittatura della stragrande maggioranza su pochi sfruttatori, instaurata dopo l’abbattimento dello Stato in mano ai capitalisti, o non sarà. Rimuovere questa colonna portante significa far crollare l’edificio del marxismo. Significa rinnegare il programma politico di Marx, Engels, Lenin e Trotsky.

(1) http://www.marxist.com/the-spanish-elections-a-poisoned-chalice-for-the-ruling-class.htm

(2) http://www.rivoluzione.red/la-spagna-svolta-a-sinistra/

Giacomo Turci

Libertà d’espressione e opposizione politica oggi

Ora che le acque si sono calmate ed è passato il quarto d’ora mediatico dedicato alle ultime contestazioni bolognesi a Matteo Salvini, è forse possibile fare qualche considerazione politica utile ai compagni del movimento operaio e di quello studentesco; un movimento, quest’ultimo, di cui faccio parte così come i compagni autori dell’articolo “Il feticcio della libertà d’espressione”. Mi permetto dunque, in risposta a tale articolo, qualche riflessione.

Gli autori commettono un errore (assolutamente in buona fede, immagino, volendo portare il lettore nel preciso campo politico di loro interesse) quando fanno risalire la genesi del concetto di libertà di espressione “in Italia” alla resistenza del 1943-5 (contraddicendosi, ricordando poi giustamente origini borghesi ben più antiche del concetto). Prendendo per buono il fatto che il concetto politico di “italianità” fosse già diffuso diversi secoli fa (cosa sia poi l’Italia, non si può trattarlo qui), la battaglia, degli strati e delle classi sociali (ri)emergenti in Italia dal basso medioevo in poi per affrancarsi dallo strapotere economico, politico, culturale che le opprimeva (sostanzialmente, quello della Chiesa, dell’Impero, delle potenze straniere), costituì fin da subito uno scontro politico per la libertà d’espressione, cioè per la libertà d’opinione e critica fuori e contro le potenze di cui sopra. Le dottrine moderne sulla libertà d’espressione sono storicamente nate da quella lotta, dall’affermarsi sull’arena economica e politica di strati sociali nuovi (o riemersi in nuove forme) contrapposti alle classi dominanti feudali. Il consolidamento del potere di queste classi sociali in evoluzione non poteva che passare da una libertà di pensiero, di dibattito, di ricerca scientifica contrapposta alla piramide teologica che sanciva la sacralità dell’ordine politico feudale. Quella situazione di proprietari piccoli e medi in ascesa, sia in lotta fra di essi nel gioco dell’accumulazione, sia contrapposti ai grandi proprietari di terre, reclamava a gran voce la più forte difesa della libertà d’espressione universale, dove l’universale, guarda caso, non veniva esteso di buon grado agli sfruttati. Successivamente, l’epoca della grande concentrazione e centralizzazione dei capitali, l’epoca dei cartelli, dei trust e dei monopoli, ha preparato le condizioni per una dottrina politica della centralizzazione della libertà di pensiero: la formazione dell’opinione pubblica è affidata a pochi grandi organi di stampa e mediatici legati alle grandi fazioni della borghesia in competizione tra loro, se non a un solo grande trust politico culminante idealmente nel partito unico più o meno fascista.

La fine del secolo scorso ha visto saltare l’alternanza “classica” tra blocchi politici di centrodestra e centrosinistra (composti, questi ultimi, di solito da partiti di origine operaia assestati nel campo politico borghese) a seguito della fine dei decenni “d’oro” del secondo dopoguerra: avanzando fasi di crisi sempre più profonde e difficili da superare, la forbice delle possibili politiche di governo si è assottigliata: esempio lampante è il Labour Party di Tony Blair in prima fila nella crociata imperialistica contro il demone del terrorismo islamista. In questo senso, in termini giornalistici, non è infondato parlare dello stabilirsi di una grande destra diffusa (vedi “partito della nazione”) dove il campo politico social-riformista non ha modo e senso d’esistere.

Venendo a noi, ci troviamo in una fase di crisi acuta delle classi dominanti europee, impegnate a mantenere per quanto possibile un posto privilegiato (forse con un’UE più forte, forse no) in un mondo dove l’epoca dello strapotere incontrastato USA-NATO sta finendo, e dove la stabilizzazione di nuovi equilibri tra imperialismi e grandi blocchi capitalistici è lontana. In Italia, in particolare, assistiamo all’evoluzione storica della carta “centrosinistra” giocata da un blocco importante, competitivo e “illuminato” della borghesia: con Renzi si è passati a una fase di pesante attacco delle classi dominate e delle loro forme di organizzazione, sindacati in primis. Con un PD, riplasmato come partito borghese lanciato sulla scia del bonapartismo di Renzi, a fare da ariete. In questo quadro, altri settori della piccola e grande borghesia si affidano a un altro blocco, quello di Salvini e di altri reazionari; a una prospettiva politica diversa, anche se non certo alternativa, dato che nessuno dei partiti padronali vuole certo questionare o, dio ce ne scampi, abbattere il sistema capitalistico in cui ci troviamo.

Oggi, la battaglia per plasmare l’ideologia dominante si gioca quindi fra blocchi a noi estranei, a formazioni politiche supportate dalle classi dominanti e che vivono per esse, risultando noi loro nemici e esse nostre nemiche: questo concetto, mi pare, deve essere cristallino; non tanto tra i “compagni” ma, in prospettiva, ai lavoratori, a tutti gli sfruttati, alle classi dominate in toto.

La nostra situazione, dunque, vede un progetto di delegittimazione, indebolimento e, in prospettiva, demolizione di qualsiasi opposizione politica delle classi sfruttate: per compiere più comodamente il loro macello – sempre meno metaforico, visto lo scenario di armamento generale e di conflitti militari diffusi, anche a poca distanza dai confini italiani. Si capisce allora subito perché lo Stato non abbia alcun interesse a reprimere sistematicamente “l’opposizione” fascista o comunque apertamente reazionaria e più o meno sovversiva: essa è funzionalissima a quel lavoro sporco di istigazione alla guerra tra poveri e di aggressione (formale con le forze dell’ordine o informale con le squadracce) agli oppositori politici e agli sfruttati in lotta. In questo senso, se c’è un vero erede del situazionismo, quello è il senso comune “democratico” di oggi: fascisti e squadristi sono coloro che contestano “da sinistra” le politiche reazionarie della Grande Maggioranza parlamentare borghese. La libertà di parola e manifestazione viene rivendicata a gran voce, per esempio, dal M5S per i fascisti, quando una qualsiasi critica (anche pacata e circoscritta) ai capitalisti e ai loro partiti in quanto tali è irragionevole, squalificata, “ideologica”. Proprio perché, nelle epoche schiacciate verso la reazione, come la nostra, l’ideologia dominante è talmente consolidata e radicata da diventare “tecnica”, “buon senso”, “buon governo” e via destreggiando. Mentre la critica dell’ideologia dominante è ideologia, falsa coscienza, mala fede; chi critica la società capitalistica, faccio notare, è spesso etichettato come “figlio di papà”, a dimostrazione che in tante cose il fascismo non ha perso ma ha stravinto, riuscendo a ribaltare la realtà per cui chi difende la politica borghese dà del prezzolato borghesotto ai proletari in lotta e agli anticapitalisti. Preso atto di ciò, questi ultimi farebbero bene a non riporre la minima speranza in una difesa giuridico-costituzionale dai reazionari: viene da chiedersi, quale giustizia e quale antifascismo possono difendere una legge e una costituzione scritte col marchio di togliattiana infamia dell’amnistia dei fascisti e dell’emarginazione, della carcerazione e dell’internamento di svariati partigiani (comunisti perlopiù, ovviamente)?

Chiarito questo, sì, “chiunque può dire qualsiasi cosa”: a patto che si pieghi al potere delle élite dominanti, gli si riconosce la libertà di compiacente parola e il patentino di democratico. Proprio quel sudicio patentino noi dobbiamo strappare, più che degli inutili quanto ininfluenti libri firmati da Salvini. Chi, specie in questa fase reazionaria di riflusso e smobilitazione, intende porsi come avanguardia politica (a proposito di ‘noi’ e identità politiche perdute nella nebbia) nel movimento operaio e studentesco, non può che avere come compito prioritario quello di ribadire, con chiarezza, costanza, inflessibilità, che la democrazia del tonfa, dei tagli, del razzismo, è la democrazia borghese; non ce n’è un’altra possibile, per noi, qui, oggi. Se questo è vero, più che la contestazione dei nemici (su cui si vince combattendo e non contestandoli), ci spetta un compito ben più ampio, faticoso, metodico, paziente, scientifico: la coltura, il perfezionamento e la diffusione di una coscienza di classe, rivoluzionaria, comunista, tra gli sfruttati, tra i lavoratori, tra gli studenti (tenendo conto della particolare posizione di questi ultimi nel complesso della divisione in classi della società); la ricostruzione di organismi di autorganizzazione di massa (ripeto: di massa, di massa, di massa!) degli studenti; la dialettica fra presa di coscienza, rafforzamento dell’organizzazione e dinamiche strutturali – perché molto non dipende da noi né dalle nostre coscienze, ma dall’evoluzione generale del conflitto di classe e delle sue conseguenze sullo Stato e sulla società civile. A proposito: le scelte di economia politica dello Stato e dei suoi addentellati non sono, appunto, disgrazie naturali o frutto di sadici piani di una plutocrazia nascosta (a proposito di fascismo): sono le conseguenza dell’evolversi della nostra società capitalistica in questa fase di incertezza fra la potente crisi del 2007-8 e un’altra crisi economica, forse ancora più forte e non molto lontana, che ci aspetta. È il capitalismo, bellezza: prendere o… abbattere. Proprio qui sta il punto: non c’è un’altra società, un’“altra Europa” se non una società che superi il capitalismo abbattendolo e rimuovendone sistematicamente le macerie. Da marxista, non posso che ripetere fino alla nausea più totale che tale società futura, e il movimento stesso che già ci sta portando a essa, sono il comunismo: la società che supera le classi sociali, la necessità di uno Stato, lo sfruttamento. La società dove l’espressione è libera perché liberi ed eguali sono i suoi membri. Battersi con questa prospettiva fa sì che il gioco valga la candela e che ogni passo in avanti del movimento reale sia un passo in più verso un obiettivo chiaro, storicamente necessario, comprensibile e condivisibile dalle più vaste masse di sfruttati e oppressi. L’alternativa è tra uno sterile lamento basato sulla confusa concezione di una “democrazia pura”, e un’agenda indipendente di mobilitazione politica, sui NOSTRI temi (caro vita, disoccupazione, sfruttamento, guerre, ecc.). Battersi con una prospettiva e una strategia rivoluzionarie rendono possibile continuare e sviluppare la lotta superando ogni illusione verso la democrazia borghese, ogni vittimismo e ogni feticismo della contestazione.

Giacomo Turci

La resistenza di oggi: liberazione dal capitalismo

Al di là di ogni retorica democratoide e narrazione celebrativa degli anni della Resistenza italiana e della Costituzione, questo è il testo volantino che diffondiamo e distribuiamo per il 25 Aprile.

 

LA RESISTENZA DI OGGI: LIBERAZIONE DAL CAPITALISMO!

Aderiamo e partecipiamo al corteo antifascista di lunedì 25 aprile, con ritrovo dalle 10 in piazza dell’Unità: invitiamo studenti e lavoratori dell’istruzione a unirsi con noi in spezzone al grido di “Studenti e lavoratori uniti contro i servi dei padroni!”.

Partecipiamo a partire dalle nostre ragioni, che sono le stesse degli operai, degli studenti e dei partigiani che animarono la Resistenza con un fine ben chiaro: farla finita non solo con la feroce occupazione nazista e col regime fantoccio di Mussolini, ma con le classi dominanti che si erano servite del fascismo per mantenere il proprio potere. La disgregazione del regime e il panico dei capitalisti italiani culminavano proprio quando gli sfruttati riscoprivano la loro forza nel mobilitarsi e lottare in massa. La Resistenza costituì una potenziale svolta rivoluzionaria, per farla finita coi padroni e col capitalismo una volta per tutte.

Ma la resistenza fu tradita. Gli imperialismi vincitori della guerra (USA, Inghilterra, Francia etc.) si erano accordati con la burocrazia stalinista dell’URSS per la divisione delle zone di influenza. L’Italia doveva restare, per volontà di Stalin, Roosevelt, Churchill, all’interno del campo capitalistico. Il nuovo PCI di Palmiro Togliatti – in totale rottura col Partito Comunista d’Italia (PCd’I) di Gramsci e Bordiga – si fece esecutore fedele delle direttive di Stalin. La svolta di Salerno sancì ufficialmente la subordinazione della resistenza alla ricostruzione del capitalismo italiano. L’alleanza del PCI con i partiti borghesi “democratici” e liberali (minuscoli e senza seguito di massa), la struttura paritetica dei CLN combinata col criterio dell’unanimità delle decisioni, offrì alla borghesia italiana ciò che chiedeva: la rinuncia preventiva a mettere in discussione il suo dominio. I governi di “unità nazionale” dell’Italia liberata fecero il resto: disarmo dei partigiani, ripristino dei vecchi prefetti fascisti, restituzione delle fabbriche ai capitalisti. L’amnistia per gli aguzzini fascisti firmata dal ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti per conto del governo De Gasperi completò il quadro. La Costituzione del 1948 non fu affatto figlia della Resistenza, ma del suo tradimento.

Ma si garantì la democrazia!” si obietta. Falso. L’insurrezione partigiana aveva rovesciato il fascismo. Ma la “democrazia” del capitalismo è stata pagata a caro prezzo dai lavoratori, attraverso le lunghe e dure repressioni del dopoguerra. Il tradimento di una rivoluzione spiana sempre la via alla reazione. Anche dentro l’involucro di una democrazia borghese.

A partire dal ’68 la classe operaia e le grandi masse giovanili che si ribellarono ai padroni e al regime democristiano ripresero a modo loro la domanda di liberazione della Resistenza. L’ascesa della classe operaia, la ricomposizione attorno ad essa della popolazione povera di tutta Italia, l’unità tra operai e studenti, assieme alla crisi verticale del vecchio blocco di potere DC, riaprirono la concreta possibilità di una svolta anticapitalista.
Ma la domanda di svolta fu nuovamente tradita. Il PCI di Berlinguer, in perfetta tradizione togliattiana, subordinò la classe operaia a un secondo compromesso storico con la DC. La burocrazia CGIL guidata da Lama accompagnò la nuova unità nazionale con la svolta dei sacrifici (EUR), che cancellava le rivendicazioni dell’autunno caldo e predicava la “austerità” per gli operai. Il grande movimento di massa che per sei anni aveva calcato le fabbriche, le scuole, le piazze di tutta Italia, fu distrutto e disperso dalla delusione. Disorientamento, passivizzazione, qualunquismo (“i partiti sono tutti uguali”, “la politica è una cosa sporca”) cominciarono a farsi largo in grandi settori di massa e a forgiare un nuovo senso comune.

Iniziò così quel lungo riflusso del movimento operaio, che dura ancora oggi: ogni volta che il movimento di massa ha rialzato la testa, le sue direzioni gliel’hanno abbassata. Un riflusso che condiziona pesantemente il movimento degli studenti, in gran parte figli di lavoratori, di sfruttati, quando non lavoratori essi stessi.

Tutto ciò conferma una cosa: non c’è alcun reale antifascismo, se difende nei fatti questa società, questo stato di cose, il capitalismo, la dittatura di banchieri e industriali, con tutto il loro codazzo di politici “antifascisti” intenti a massacrare le condizioni di vita degli sfruttati con le stesse logiche di sempre. L’unico antifascismo utile agli sfruttati è quello che pone la prospettiva di farla finita col capitalismo, di estirpare la radice che genera sempre nuovi mostri politici per sfruttare e soggiogare il proletariato. Un antifascismo che non indichi chiaramente l’abbattimento del capitalismo come unica soluzione per dissolvere per sempre il fascismo, è un antifascismo non solo inutile, ma dannoso per la presa di coscienza politica delle nuove generazioni.

Chi si limita a rivendicare la “democrazia” senza denunciare il suo carattere borghese, le sue fondamenta di sfruttamento e oppressione; chi non indica la necessità di una rivoluzione di questa società per arrivare a una democrazia reale, per tutti e non per pochi, fatta di liberi ed eguali, e non di sfruttati e sfruttatori; chi non prende una posizione netta, anticapitalista, contro la “democratica” dittatura dei capitalisti, non onora certo la memoria di chi animato la Resistenza per farla finita coi padroni che avevano usato il fascismo contro il movimento rivoluzionario degli sfruttati.

Oggi come ieri rivendichiamo: Liberazione… dal capitalismo!

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Bertolt Brecht – Al momento di marciare molti non sanno

che alla loro testa marcia il nemico.

La voce che li comanda

è la voce del loro nemico.

E chi parla del nemico

è lui stesso il nemico.

Lev TrotskyDa “Hitler e gli insegnamenti dell’esperienza italiana” (1932)

Il fascismo italiano è nato direttamente dal tradimento della rivoluzione proletaria compiuto dai riformisti. Dalla fine della guerra il movimento rivoluzionario in Italia si sviluppò su di una linea ascendente, e nel settembre 1920 condusse all’occupazione delle fabbriche e degli stabilimenti. La dittatura del proletariato era ormai un fatto.

Occorreva soltanto organizzarla e condurla alle sue ultime conseguenze. La socialdemocrazia si spaventò e fece macchina indietro. Dopo sforzi eroici e audaci, il proletariato si trovò ai piedi l’abisso.

Vladimir Lenin – Da “Stato e rivoluzione” (1917) e “’Democrazia’ e dittatura” (1918)

La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo più favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia piú o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell’antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che «hanno ben altro pel capo che la democrazia», «che la politica», sicché, nel corso ordinano e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un’infima minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo più da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e sempre – sia nei «minuti», nei pretesi minuti particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i «poveri»!), sia nell’organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste restrizioni […] escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia.

Gli Scheidemann e i Kautsky parlano di “democrazia pura” o di “democrazia” in generale per ingannare le masse e per nascondere loro il carattere borghese della democrazia attuale. Continui la borghesia a detenere nelle sue mani tutto l’apparato del potere statale, continui un pugno di sfruttatori a servirsi della vecchia macchina statale borghese! Va da sé che la borghesia si compiace di definire “libere”, “eguali”, “democratiche”, “universali” le elezioni effettuate in queste condizioni, poiché tali parole servono a nascondere la verità, servono a occultare il fatto che la proprietà dei mezzi di produzione e il potere politico rimangono nelle mani degli sfruttatori e che è quindi impossibile parlare di effettiva libertà, di effettiva eguaglianza per gli sfruttati, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione. Per la borghesia è vantaggioso e necessario nascondere al popolo il carattere borghese della democrazia attuale, presentare questa democrazia come una democrazia in generale o come una “democrazia pura”, e gli Scheidemann, nonché i Kautsky, ripetendo queste cose, abbandonano di fatto le posizioni del proletariato e si schierano con la borghesia.