Partiamo da un fatto: ieri sera in Via Zamboni 38 a Bologna letteralmente una marea di studenti (500 per essere modesti) si è riunita nella più grande assemblea studentesca che abbia visto in tre anni di frequentazione assidua dell’Unibo: due aule strapiene e proiezione sul maxischermo (persino Repubblica è stata costretta a parlarne).
Questo fatto di straordinaria rarità in tempi in cui le opinioni sono affidate perlopiù ai social, mi ha emozionato. Ma non è solo delle mie emozioni che voglio scrivere, bensì di alcuni pensieri e considerazioni su ciò che in quelle aule gremite ieri si è detto, ed anche su ciò che non si è detto. Perché quello che non si dice a volte è più significativo di ciò che viene rivelato.
Prima considerazione da fare è che l’eccezionalità di un simile incontro si è potuta verificare in seguito all’esplosione mediatica cittadina e nazionale a cui i vergognosi fatti dell’irruzione della polizia nella biblioteca del 36 sono stati esposti. Senza quell’attenzione mediatica, favorita forse dal comportamento della polizia e da un questore che ha osato davvero troppo anche a detta dei benpensanti, probabilmente ieri non saremmo stati così tanti.
E ciò un po’ amareggia perché significa, e sarò forse banale, che nella percezione della maggioranza della massa studentesca un fatto accade solo se narrato dai media, o quanto meno, è percepito con maggiore forza e vigore di realtà, se narrato dai media, proporzionalmente all’importanza e all’attendibilità del mezzo.
Seconda considerazione da fare: un fatto eccezionale (ma sempre più “normale” e normalizzato) quale è stata l’irruzione al 36 della polizia, sia pure per via del clamore mediatico e del tam tam sui social, ha avuto una risposta altrettanto eccezionale quale è stata l’assemblea di ieri.
E per proseguire nelle nostre considerazioni ed evidenziare limiti e potenzialità di tale assemblea siamo ora costretti ad avvicinarci ai contenuti che sono stati discussi.
I compagni e le compagne del Cua hanno introdotto la serata riassumendo la loro versione, di testimoni in prima persona, di ciò che era accaduto nella biblioteca. Dopodiché una ragazza si è occupata di registrare i nomi di chi voleva intervenire. Più di una decina di interventi, tra loro variegati, alcuni significativi dal mio punto di vista, altri meno.
L’impressione infatti è che almeno la metà (se non più) degli studenti presenti erano curiosi venuti lì per capire cosa mai stesse succedendo nella loro Università e perché persino il TG1 ne parlasse. Una parte di questi curiosi però si è mostrata favorevole ai tornelli, alcuni di essi non avevano una opinione precisa, altri ancora erano contrari ma denunciavano i modi “violenti” del CUA. A proposito di violenza, a un certo punto un ragazzo ha chiesto a coloro che erano contrari alla violenza di alzare la mano. Tanti presenti lo hanno fatto. Per quanto mi riguarda, anzi per quanto ci riguarda, questo è un problema perché rivela una grande ingenuità da parte degli studenti circa un fatto essenziale ed elementare che caratterizza la storia umana: nessun grande stravolgimento, che piaccia o no, si è verificato senza una certa dose di violenza. Sulle modalità di questa violenza poi, sul fatto che essa debba essere violenza rivoluzionaria e non violenza individuale magari perpetrata da un folle o da una elite (come fu ad esempio per le Brigate Rosse) e in maniera sconnessa dalla classe, dagli sfruttati e dalla maggioranza, su questo certamente si può e si deve discutere.
Fortunatamente qualche intervento dopo qualcuno ha ribadito come sia il sistema capitalistico, quello entro cui e attraverso cui ci muoviamo e sotto il quale siamo costretti a rinunciare al presente e ancor più al futuro, ad essere violento e non chi manifesta. Scardinare un fornello infatti, in quanto a violenza, non potrà mai essere equiparabile alla costrizione di una generazione intera al precariato.
Quegli studenti venuti lì per “curiosità” temo che non ci torneranno perché un’assemblea non è stata sufficiente a mutare la loro coscienza. Il lavoro è molto più lungo. Ma è un lavoro che va fatto, ed anche questo ieri è un po’ mancato, non limitandosi a discutere di tornelli né solo discutendo tra studenti. Il tornello è un simbolo, è qualcuno ieri giustamente lo ha detto. Per quanto mi riguarda il tornello è inutile e dispendioso (oltre che dannoso), ma la questione non dovrebbe essere posta tanto in termini di efficacia o meno del tornello nella risoluzione di un problema di percepita insicurezza, ma in termini di ciò che il tornello rappresenta. Il tornello è solo un tassello, uno step di un processo innescato dall’idea che c’è dietro il tornello che è quella di una università “chiusa”, militarizzata, controllata, ad ingressi centellinati e quantificabili al fine di soddisfare interessi privati (il modello anglo-americano). Questo significa che oggi la barriera si è materializzata nei tornelli, domani potrebbe essere peggio e diventare dispositivi di controllo ancora più pervasivi ed escludenti in un luogo che è, o dovrebbe essere, pubblico. A sua volta, quello che va ribadito per non rimanere isolati e non far rimanere la rivendicazione isolata, è la sua costante connessione con tutto il resto. Innanzitutto con le altre rivendicazioni degli studenti, che dovrebbero essere chiarificate e rese ambiziose (non solo stop ai tornelli e ripresa degli spazi, ma organizzazione di collettivi di facoltà, stop al caro-mensa, abbassamento delle tasse, fino ad arrivare alla rivendicazione di un reddito fisso per gli studenti). In secondo luogo tutte le rivendicazioni degli studenti vanno costantemente collegate a quelle del mondo del lavoro e dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, etc…, sarebbe infatti davvero troppo ingenuo trattare l’Università come un territorio neutrale e non come un avamposto di una società capitalistica sbagliata che vogliamo combattere nel suo complesso, anche e soprattutto perché ci riguarda da vicino, essendo quella dentro cui ci troveremo a lavorare (o a non lavorare) una volta usciti dall’Ateneo.
Matteo Iammarrone.